Viaggio nei luoghi della Battaglia di Aprilia: il periodo di stallo

Tra il marzo e l’inizio di maggio del 1944 sul nostro territorio i combattimenti rallentarono. Approfondiremo in questa puntata del nostro viaggio alcuni aspetti della vita dei soldati di quel tempo

Come abbiamo visto nella precedente puntata, molte delle truppe coinvolte nei combattimenti svoltisi nel territorio apriliano dopo lo Sbarco di Anzio ricevettero decorazioni al merito. Tra queste vanno ricordate anche il III Battaglione Paracadutisti americano, il primo tra i reparti parà americani impegnati sul fronte europeo della Seconda Guerra Mondiale a ricevere la Menzione d’Onore del Presidente degli Stati Uniti, ed anche il battaglione che abbiamo conosciuto nello scorso capitolo, quello rimasto intrappolato nelle grotte della zona Caffarelli, cui spettò il medesimo riconoscimento. Nella puntata odierna, sempre accompagnati da Massimo Zanon dell’Associazione Storico Culturale The Factory 1944, approfondiremo alcuni aspetti di quella prima metà del 1944 che esulano dal contesto delle battaglie. L’opportunità ci è regalata dal periodo di stallo che tra il mese di marzo e l’inizio di  maggio fece registrare la quasi totale assenza di scontri tra i due schieramenti

GLI WADI

Lo stallo fu una condizione praticamente inevitabile: tutti e due gli schieramenti, i tedeschi da una parte e gli Alleati dall’altra, erano allo stremo delle forze. Tanti furono i fattori, oltre naturalmente agli scontri armati, che portarono a questo “calo di energie”. Innanzitutto, in breve tempo il fronte aperto con lo Sbarco di Anzio vide il riproporsi della guerra di trincea, tratto distintivo del primo conflitto mondiale. Ciò comportò, ovviamente, delle situazioni molto disagevoli per i soldati, soprattutto quelli britannici ed americani.

I primi due mesi del 1944 furono particolarmente piovosi; questo fattore, unito al terreno argilloso della nostra zona in cui, dopo aver scavato per pochi centimetri, si trova l’acqua, rese quasi impossibile ai soldati di rimanere asciutti. Furono più di 36.000 i casi di piede da trincea registrati. Si tratta di una patologia dovuta, appunto, all’eccessiva esposizione delle estremità inferiori all’acqua: questa, a lungo andare, deteriora la pelle, il che porta il piede ad essere più soggetto alle infezioni. Se non curate in tempo, esse potevano portare alla cancrena od anche alla morte. Ma evitare di restare a mollo a lungo era molto difficile. Come spiegato in precedenza, infatti, Aprilia era un gruppo di 28 case nel mezzo di una pianura piatta e molto vasta. Era praticamente impossibile nascondersi ai pattugliamenti aerei nemici, oppure all’artiglieria posizionata sui Castelli Romani, rimanendo in superficie. Dunque o ci si nascondeva nei boschi, ma non ce n’erano molti in zona, o si restava distesi nella propria trincea per tutto il giorno, con tutte le conseguenze, soprattutto igieniche, che ne potevano conseguire. Solo di notte, infatti, era possibile alzarsi senza essere un facile bersaglio. Era questo l’unico momento in cui si potevano svuotare i contenitori in cui erano state raccolte le proprie necessità fisiologiche tenute per tutto il giorno all’interno della trincea (spazio angusto in cui c’era spazio di solito per una sola persona).

Anche le condizioni atmosferiche, come accennato, rendevano pericolosi questi nascondigli. Un soldato americano, raccontando la sua storia, ha messo in luce come un bombardamento nemico gli abbia salvato la vita durante una giornata piovosa. Addormentatosi nel suo rifugio non si era reso conto che la pioggia aveva iniziato a riempire la sua trincea. Solo il rumore dei colpi sparati dal nemico lo destò dal suo sonno, facendogli capire la situazione e permettendogli di salvarsi dalla morte per affogamento.

Le uniche zone del nostro territorio che permettevano di vivere in condizioni “migliori” durante il giorno erano gli wadi. Il nome arriva dall’Africa del nord, da dove provenivano alcuni dei battaglioni impiegati nella guerra sviluppatasi nel Lazio. Dall’altra parte del Mediterraneo questi soldati avevano trovato dei luoghi del tutto simili alla situazione che si trovarono di fronte in Italia, riportando dunque il nome originale anche qui. Si tratta, in sostanza, di grandi canaloni profondi anche 20 metri coperti per larghi tratti dalla vegetazione, in cui si poteva anche stabilire un piccolo accampamento. Visti dall’alto, ognuno di questi canaloni richiamava una forma particolare, da cui ne derivò la denominazione: aragosta, stivale (che abbiamo già incontrato e che diventerà lo stivale insanguinato), fosso del Re Michele, fosso della Bottaccia, fosso di Caronte, fosso di Carroceto, fosso del Buon Riposo, fortezza, ecc. Di particolare rilevanza, tra gli wadi, il fosso della Moletta: esso fu teatro di scontri che coinvolsero un reggimento della Folgore e, in ricordo di questi avvenimenti, il nome del fosso apriliano è stato trascritto su un monumento presente nella Caserma della Folgore di Pisa.

Foto: The Factory 1944

Nei percorsi naturali disegnati dagli wadi era possibile anche ritrovarsi improvvisamente faccia a faccia con il nemico. Non si tratta, infatti, di percorsi rettilinei, ma di tragitti irregolari fatti anche di curve cieche, che potevano nascondere insidie di ogni genere. Anche per questo, secondo alcuni racconti, chi usciva di pattuglia non di rado fingeva di compiere tutto il percorso assegnatogli, fermandosi invece in un punto nascosto fino al termine del proprio turno, per poi rientrare ed affermare di non aver incontrato nemici.

Uno wadi strategicamente importante fu ritenuto quello denominato “fortezza”, che corre anche all’interno della Tenuta Calissoni Bulgari, punto di partenza di questo nostro viaggio. Esso rappresentava uno snodo tra diversi percorsi, e controllarlo poteva voler dire avere un vantaggio di posizionamento sul nemico. Ad un racconto relativo alla fortezza possiamo ricondurre il tipo di vita a cui i soldati erano costretti e che abbiamo cercato di descrivere nella prima parte di questo paragrafo. A fornirci questa testimonianza è un soldato inglese morto pochi anni fa ed autore di alcuni libri sulle battaglie combattute in terra laziale. Arrivato di notte con i suoi uomini per dare il cambio alla pattuglia di stanza proprio alla fortezza, l’ufficiale Trevelyan non riuscì in un primo momento a vedere nulla, ma solo a sentire un odore nauseabondo. Alle prime luci dell’alba capì a cosa fosse dovuto: la pattuglia che era venuto a rilevare aveva lasciato i contenitori usati per i bisogni, del cibo avariato e dei corpi ormai in stato di decomposizione a poca distanza dall’accampamento. Questi erano gli scenari che i soldati si trovavano di fronte.

GUERRA PSICOLOGICA

Già questo basterebbe per creare notevoli disagi alla psiche di una persona impegnata in una situazione drammatica come può esserlo una guerra. Ad aggravare ancora di più la condizione mentale dei soldati arrivò la strategia della guerra psicologica messa in atto soprattutto dai tedeschi. Tra le modalità più utilizzate c’era quella dei volantini che, oltre a slogan ad effetto volti ad incentivare la resa nemica, riproducevano anche immagini cruente relative alle conseguenze che lo Sbarco di Anzio aveva avuto sui commilitoni alleati. Non solo: anche attraverso la radio, il mass media per eccellenza in quell’epoca pre-televisiva, vennero lanciati attacchi alla stabilità psicologica dei nemici.

In un programma radiofonico in lingua inglese, ma di matrice tedesca, i più grandi successi swing dell’epoca venivano intervallati da bollettini periodici annunciati dalla speaker Sally Axis. Oltre a ribadire che arrendersi voleva significare, per americani e britannici, restare in vita, venivano anche fornite le generalità dei prigionieri caduti in mano tedesca. I quali, sottolineava la conduttrice, mangiavano regolarmente con pasti abbondanti e non erano più costretti ad imbracciare le armi, rimanendo dunque al sicuro mentre i commilitoni che ascoltavano la trasmissione rischiavano ancora la vita.

Ma, come in tutte le guerre, furono le armi ad avere gli effetti più devastanti. In quel 1944 i tedeschi potevano contare su Leopold e Rudolf, due cannoni da 280 mm con una gittata di 64 km che lasciavano a terra crateri da 15 od anche 20 metri di profondità, ed altrettanti di diametro. Il solo spostamento d’aria provocava la morte degli sventurati che si trovavano sulla traiettoria dei loro proiettili. Secondo il racconto di alcuni reduci, la sensazione era quella di sentirsi passare sopra la testa un treno a vapore. L’unica contromisura possibile era quella di rannicchiarsi nella propria trincea e pregare che il colpo atterrasse il più lontano possibile.

Foto: The Factory 1944

Neanche le retrovie, dove di solito venivano allestiti gli ospedali da campo, erano luoghi sicuri. Le bandiere rosse che sormontavano queste strutture, e che dovevano identificarle come obiettivi non militari e dunque da salvaguardare, non fermarono gli attacchi tedeschi, rendendo quei luoghi “il mezzo miglio dell’inferno” per i feriti. Diventa ancora più comprensibile come molti dei superstiti di quei terribili anni di guerra siano rimasti traumatizzati per il resto della loro vita.

LA SITUAZIONE DEI CIVILI

Non che i civili se la passassero meglio. Dopo l’8 settembre del 1943, gran parte della popolazione di Nettunia (che come abbiamo già detto in una delle puntate precedenti nacque per volere di Re Vittorio Emanuele III nel 1939 dalla fusione di Anzio e Nettuno) fu evacuata, eccezion fatta per gli addetti al funzionamento del porto, pochi altri ritenuti “indispensabili” per il funzionamento della città e chi abitava nelle campagne. Molti civili delle altre città furono trasportati nel sud già liberato, mentre altri barattarono la fuga al nord. Come tutti sanno, infatti, la maggior parte dei cittadini insediati nelle città di fondazione provenivano dall’Italia settentrionale, e dunque cercarono di tornare nelle loro terre d’origine comprando con i pochi averi rimasti un passaggio sugli unici mezzi autorizzati al transito nei territori ancora occupati: quelli del Vaticano.

Per chi, invece, non riuscì a scappare, la vita divenne difficilissima. Uscire dalla propria casa o dai nascondigli divenne un rischio enorme: si poteva infatti venire scambiati per nemici e finire sotto il fuoco di uno dei due schieramenti. Accedere ai rifornimenti era molto complicato, ed era molto pericoloso anche approvvigionarsi alle fonti naturali di acqua, molto spesso sporche del sangue dei soldati ed inquinate. C’era poi chi veniva fatto prigioniero  e sfruttato per il lavoro pesante. Gli uomini non più, o non ancora, in età di leva furono cooptati dall’Organizzazione Todt per erigere le fortificazioni della nuova linea difensiva approntata dai tedeschi. Insomma, la vita non era facile per nessuno.

LA SCOPERTA DEL VINO

Il periodo di stallo permise anche momenti di svago che durante i giorni dei combattimenti serrati non erano di certo possibili. Le truppe alleate organizzarono degli spettacoli con lo scopo di tirare su il morale dei soldati e c’è da credere che l’arrivo, tra le altre celebrità, di Marlene Dietrich portò una ventata di normalità e leggerezza tra i soldati. Così come, per gli inglesi, fu un piacevole passatempo il derby organizzato con gli asini. La tradizione ippica anglosassone, seppure con una piccola deroga, non poteva mancare nemmeno in tempo di guerra. Fu durante questo periodo di stasi che a Nettuno arrivò il baseball, ovviamente grazie ai soldati americani che organizzarono delle partite. Ancora oggi, la squadra nettunese rappresenta una delle realtà più importanti del panorama italiano di questo sport. Non mancarono nemmeno le gare tra insetti, su cui i soldati scommettevano quel poco che era loro rimasto. Ma si trattava di un momento di evasione dagli orrori della guerra, è più che comprensibile che non si badasse a “spese”.

Da questi momenti di relax negli accampamenti alleati, comunque, i tedeschi non erano esclusi. L’attenzione verso le linee nemiche non si affievolì durante il periodo di stallo, e tutte le attività alleate vennero tenute sotto controllo dai soldati di Hitler che non mancarono, in alcuni casi, di far sapere ai nemici quanto fosse stato divertente assistervi, seppure a distanza.

Durante la loro permanenza sul nostro territorio, gli anglo-americani ebbero modo di conoscere da vicino un prodotto con cui, fino a quel momento, non avevano avuto molta confidenza: il vino. Nelle cantine delle case ormai abbandonate gli Alleati trovarono grandi riserve della pregiata bevanda che, secondo loro, poteva essere tranquillamente utilizzata in sostituzione dell’acqua. Era infatti complicato arrivare fino alle navi deputate al servizio di rifornimento, anche perché queste erano facilmente raggiungibili dai colpi di Leopold e Rudolf se si avvicinavano troppo alla costa. Così iniziarono a trangugiare vino come fosse acqua, andando incontro agli inevitabili effetti collaterali. Emblematica la storia di un soldato che, dopo una ricca bevuta in una casa colonica, ne uscì indossando un cappello a cilindro che vi aveva rinvenuto all’interno. Non molto lucido, si diresse verso l’accampamento nemico, riuscendo peraltro a superare indenne un campo minato. Arrivato a destinazione, fu indirizzato dalla parte giusta dai soldati nemici e fece ritorno, sempre con andatura incerta, dai suoi commilitoni. Per sua fortuna riuscì a raccontare questa storia ai suoi compagni, sempre ammesso che la ricordasse.

Foto: The Factory 1944

VERSO LA RIPRESA DELLE OSTILITÀ

Le prime avvisaglie che la tregua era ormai agli sgoccioli arrivarono tra il 23 ed il 24 aprile: in quei giorni, infatti, ebbero luogo due piccole operazioni alleate. In una di queste, denominata Operazione Black e condotta nella zona del fosso di Spaccasassi, si mise in luce il giovane soldato Squires. Ad appena 18 anni, il militare americano diede prova di grandi doti riuscendo, nel corso di quella e delle successive battaglie, a compiere atti di grande valore militare. Dal superamento di un campo minato al danneggiamento delle mitragliatrici nemiche, dalla cattura di alcuni prigionieri alla conduzione di un battaglione dopo il rientro nelle proprie linee. Trovò la morte il successivo 3 giugno, ma le sue gesta gli valsero il conferimento della Medaglia d’Onore del Congresso.

La seconda operazione messa in atto dagli Alleati fu denominata Mr. Green, e potrebbe anche essere classificata tra gli attacchi di natura psicologica. L’attacco consistette infatti in un fuoco di artiglieria seguito dall’avanzata di un mezzo corazzato che a tutto volume trasmetteva un appello alla resa rivolto ai nemici, a sua volta seguito da un nuovo fuoco di sbarramento e così via.

Vale la pena sottolineare che nei successivi e decisivi attacchi, di cui parleremo nella prossima puntata del nostro reportage, furono impiegati per la prima volta mezzi che, dato l’ottimo rendimento, furono utilizzati anche per lo Sbarco in Normandia. Si tratta, ad esempio, di carri armati equipaggiati con i cosiddetti Scorpion, ovvero dei congegni installati nella parte anteriore dei mezzi corazzati che permettevano di sminare i terreni e liberare il passaggio alle truppe di terra. Per l’offensiva finale, inoltre, gli Alleati poterono contare su una serie di battaglioni inviati a rinforzo delle truppe presenti e che fornirono un importante vantaggio numerico sui tedeschi.

Tra i reggimenti inviati per l’Operazione Buffalo va menzionato il battaglione Nisei. Il loro stemma consisteva nella fiaccola tenuta dalla Statua della Libertà sormontata dalla scritta “Per non dimenticare”. Quello che i soldati del battaglione non volevano dimenticare era l’attacco a Pearl Harbour, che aveva portato tanto odio e diffidenza nei loro confronti. Si trattava infatti di un battaglione composto quasi esclusivamente da americani di origine giapponese. I loro genitori, giapponesi di nascita, all’indomani dell’attacco nipponico alla base statunitense, per sospetto collaborazionismo furono imprigionati nei campi di concentramento allestiti in Texas, Sud Carolina e California. Per dimostrare di essere dei veri americani, questi giovani decisero di arruolarsi volontariamente e dare il proprio contributo alla vittoria della guerra, in modo da riscattare sé stessi ed i propri cari. Anche grazie al loro apporto, che li fece diventare uno dei reparti più decorati in assoluto, la controffensiva alleata poté contare su un rapporto di 20 a 1 nei confronti dei nemici: per ogni proiettile sparato dai tedeschi, ne partirono 20 dallo schieramento alleato.

Ma questo lo vedremo meglio nell’ultima tappa del nostro viaggio.

Foto: The Factory 1944

di Massimo Pacetti

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