Stefania Cocco
La notizia dello straordinario caso della bambina nata in una piccola clinica del Mississipi, affetta dall’AIDS e guarita in seguito a un trattamento medico poco ortodosso, sta facendo il giro del mondo. La bimba, di cui non sono state rese note le generalità, nasce nel luglio del 2010 da una madre sieropositiva, ignara di essere portatrice del virus dell’HIV fino al momento del parto. Dopo le prime analisi la bimba viene trasferita d’urgenza al Medical Center della University of Mississipi, senza attendere i risultati di un esame più approfondito che confermasse l’effettiva presenza del virus HIV nel suo sangue. I tempi di risposta di questo test, infatti, oscillano dalle 4 alle 6 settimane, un tempo d’attesa decisamente troppo lungo per l’urgenza di questo caso. Nella clinica universitaria un team di ricercatori prende in mano il caso e la dottoressa Hanna Gay decide di dare inizio ad una massiccia terapia composta da un cocktail di tre farmaci antiretrovirali, un intervento decisamente inusuale in un paziente di sole 30 ore di vita. Le cure vengono portate avanti per 18 mesi, dopodiché la madre decide di interrompere la terapia farmacologia. Trascorsi 10 mesi, una visita di controllo rivela, fra l’enorme sorpresa dei medici, che i livelli di virus non sono affatto cresciuti, come invece ci si sarebbe aspettati dopo un periodo così lungo di sospensione dei farmaci, ma che, piuttosto, di virus nel sangue non c’è più traccia.
La bambina oggi ha due anni e mezzo e da circa un anno non assume più alcuna medicina. Secondo i medici la piccola è “funzionalmente” guarita, ciò significa che i comuni test che rilevano la replicazione del virus nel sangue risultano negativi in quanto il suo sangue è “pulito”, ma la bimba non può essere considerata guarita sotto tutti i punti di vista. Una piccola presenza del virus, in effetti, è latente in parti del corpo che i test classici non riescono a raggiungere. Anche se la bambina non ha bisogno dei farmaci standard, in quanto questi agiscono ostacolando la replicazione del virus nel sangue, dovrà essere tenuta in costante osservazione per monitorare eventuali ricadute dell’infezione, non totalmente scongiurabili.
L’unico caso di guarigione finora riscontrato è quello di Timothy Brown, conosciuto anche come il “paziente di Berlino”, un uomo affetto da AIDS e da leucemia che, nel 2007, grazie a un trapianto di midollo osseo che presentava una rarissima mutazione genetica, è risultato resistente al virus HIV. Il caso della neonata del Mississipi è sostanzialmente diverso da quello di Timothy. Grazie a esso, infatti, si è capito che i neonati reagiscono molto bene alla terapia se presi tempestivamente, ovvero se non si dà il tempo all’infezione di creare le cosiddette “riserve virali”, vere e proprie sacche di riserva del virus irraggiungibili dai farmaci, quindi impossibili da debellare. La bambina del Mississipi ha certamente contribuito ad alimentare la ricerca medica e scientifica contro una delle malattie virali più violente del nostro secolo, indicando un metodo efficace e riproducibile per curare i neonati affetti da HIV e una speranza alle prospettive di vita di questi piccoli pazienti.