Come difendersi da Equitalia

Tempi e modi per impugnare le famigerate cartelle pazze

La cartella di pagamento è un atto impositivo emesso dall’agente di riscossione territorialmente competente. A seguito di un inadempimento del debitore, relativo a tasse, imposte, sanzioni o contributi,  rilevato da un controllo o da un accertamento dell’Amministrazione Finanziaria, l’ente impositore forma il cosiddetto “ruolo”, un elenco di debitori e di somme dovute dagli stessi debitori indicati; sulla base di questo atto, l’agente di riscossione emette la cartella di pagamento. A decorrere dal 2006, l’attività di riscossione è interamente gestita dall’Agenzia delle Entrate con l’ausilio di una società ad hoc (Equitalia). Negli ultimi anni, per venire incontro ai contribuenti, innanzi alle spesso inesistenti o sbagliate pretese di Equitalia, sono state potenziate le possibilità di auto-difesa.

Il contribuente che si vede notificato una cartella di pagamento, che ritiene non corretta, ha davanti a sé due alternative: quella amministrativa (autotutela) e quella giudiziale. Per quanto riguarda la via dell’autotutela, un primo snellimento dalla inutile burocrazia si è avuto con la direttiva 10/2010 con la quale è stato concesso ai contribuenti, che ritengono di aver ricevuto una cartella relativa a importi già versati o non più dovuti, per provvedimenti di sgravio o sospensione, di presentare richiesta di sospensione direttamente all’agente di riscossione, e non necessariamente come prima ai vari enti impositori. Ma è con la “Legge di Stabilità” con decorrenza dal 1 gennaio 2013 che si è avuto un decisivo passo avanti nello snellimento delle procedure. Entro 90 giorni da quando ha ricevuto il primo atto di riscossione utile o un atto della procedura cautelare o esecutiva, il contribuente, deve presentare all’agente della riscossione (Equitalia) una dichiarazione, anche con modalità telematiche, mediante la quale venga documentata una causa di prescrizione o decadenza o un provvedimento di sgravio o ancora una sospensione amministrativa o che addirittura il credito non sia proprio esigibile. Entro dieci giorni l’agente della riscossione deve trasmettere il fascicolo all’ente creditore, perché accerti l’esistenza delle ragioni presentate dal debitore-contribuente; l’ente creditore entro 60 giorni deve comunque fornire una risposta. Se la richiesta viene accettata la procedura viene cancellata viceversa in caso di insuccesso il debitore dovrà essere avvertito che l’attività di recupero riprenderà. Ma, ecco la novità, decorsi 220 giorni dalla data di presentazione dell’istanza iniziale del debitore, senza che sia stato fornito un riscontro, scatta l’annullamento di diritto delle somme pretese, pertanto il debito si considera estinto per silenzio-assenso. Per evitare abusi a questa disciplina di favore, resta ferma, ovviamente, la responsabilità penale per presentazione di documentazione falsa. L’altra strada possibile è l’impugnazione della cartella davanti all’autorità giudiziaria competente, per precisi motivi. L’impugnazione, inoltre, può essere intrapresa solo entro 60 giorni dal ricevimento della cartella se si tratta di un accertamento esecutivo (cioè che prevede la riscossione immediata) o 150 giorni (60 + 90 di sospensione del termine) se si tratta di un accertamento con adesione (cioè il “patteggiamento” col fisco della somma da versare che non ha avuto esito positivo). Quando questi rimedi non possono essere esperiti è possibile per il cittadino accedere alle procedure di rateazione dei debiti fiscali, che variano per modalità e costi a seconda della situazione e della tipologia di obbligazione tributaria.

Avv.
Maria Catena Savoca

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